13.9.09

Il claustrofilo



Un architetto fatto e finito, anzi, progettato e costruito, al ventiquattresimo autunno nel punto massimo di sopportazione inforca gli occhiali, sparisce nei sotterranei, non lascia scritto niente dei, ai, sui suoi contemporanei. Pratica l’arte del nascondersi dentro i cunicoli che la gente usa in metro per muoversi: rimesse, caldaie, locali tecnologici, condotti termici e altri spazi privi di sguardi vigili divorati dalle ruggini. Polvere, sedimenti ed affioramenti umidi. L’estetica della non-curanza. La manutenzione di grado-salvezza sono le linee di forza di ogni costruzione posta sotto la crosta terrestre. Sopra la terre si cresce. Sotto la terra si germina. Un architetto non parla, non progetta e non sovraccarica. Quando invece preferisce: delimita. Abita.

Un architetto fatto e finito, anzi, progettato e costruito, al ventiquattresimo autunno fa il punto della situazione. Reperisce materiali, ricostruisce i modelli. Per non confrontarsi inventa nuovi livelli che siano indispensabili per sostentarsi. Il suo laboratorio è situato là dove nessuno è solito avventurarsi, così farà in tempo a costruire qualcosa prima che qualcuno gli dica di non provarci perché potrebbe sbagliarsi. Piuttosto che opporsi o scegliere di adeguarsi è meglio nascondersi e presentarsi dopo anni diversi e forti di una personale realtà dei fatti che matura negli spazi non contaminati, perfettamente coibentati, paralleli e diametrali, perché ci sia una vera scelta tra i piani e non ci si elimini vicendevolmente come tra spazi euclidei e lobacevskijani.

Scelte spaziali personali. Reset sugli spazi comuni. Palette di angoli generata, alienata dai default, soffocata dai preset, evoca pattern precedenti all’archetipo. Utenti che si credono programmatori ostacolano il progresso con sguardo dimesso con visuale ampia a 300 gradi sugli assi x, y, z. Io mi prendo quei 60 di visuale cieca che stanno sotto terra. Economia degli ambienti. Occupo il quarto asse: quello dei tempi. Stabilisco la mia casa. Disegno la città futura. Riqualifico gli spazi che non si utilizzano in modo efficace. Niente parchi o verde imbrigliato. Niente negozi ulteriori. Niente locali o parcheggi. Niente inaugurazioni. Niente azioni critiche. Solo abitazioni sotterranee per relazioni non istantanee, per chi si concentra in poco spazio e poco ossigeno. Le mie facoltà verbali si limitano: parlo a scatti.

Strati intorno
Sotto e sopra
Manodopera
Scavabuchi
Non mi tocca
La mia porta
Sempre chiusa
La mia casa
Sempre occulta
Una stanza
Fuori gente
Dentro tutto
Fuori niente
Dentro niente
Interesse
Già perduto
Parli troppo
Resto muto
Ami il traffico
Amo il chiuso
Io mi sposto
Non incontro
Io contorco
Non riposo
Tu sereno
Sei estremo
Io cammino
Tu cammini
Ci dividono
Dei tombini
Tu fai tardi
Non so l’ora
Luce filtra
Sto leggendo
Vado in duomo
Sottoterra
Senza metro
Passo d’uomo
Mi procuro
Tu acquisti
Siete tristi
Sono chiuso
Siete allegri
Sono neutro
Sottoterra
Come i morti
Sulla terra
Tu ti sposti
Quali costi
Quali affetti
Tu rifletti
Troppo poco
Io mi fletto
Tocco il vuoto
Tu rifletti
Troppo poco
Ma capisci
Penso troppo
Mi nascondo
Provo gioia
Mi nascondo
Sono puro
Io disegno
Dove abiti
Nel futuro
Ti rinchiudo
Ti dirigo
Con la penna
La città
Sarà diversa
Chi comanda
È chi progetta
Chi disegna
Chi si sposta
La protesta
Non mi serve
Cosa serve
La matita
La matita
La matita


(Uochi Toki, Il Claustrofilo, 2009)

12.9.09

Fari nella notte


«The inner meaning of his architecture derives from these pendular alternatives, from the joyful refusal to select one of them, reducing the range of his vital tentacles.»


(Bruno Zevi su Arieh Sharon)

8.8.09

Prolegomeni ad ogni metafisica del futuro

Le leggi del caos


Vi propongo una riflessione estemporanea.

Come sa chi mi conosce un poco, la maggior parte dei miei turbamenti esistenziali si condensa, a volerla far semplice, nell’espressione popolare “chi troppo vuole nulla stringe”; il vano desiderio di una conoscenza enciclopedica era, per l’appunto, quello che mi aveva spinto alla scelta universitaria. Una ingegneria, certo, ma un’ingegneria mista, nella quale trovasse posto tanto l’analisi matematica vettoriale quanto la storia del design, tanto la chimica subatomica quanto il disegno d’architettura.
Bene, oggi che comincio a intravedere la fine di questa avventura formativa e che quindi posso guardarla, per così dire, “da lontano”, nella sua interezza, mi sembra si delinei alquanto chiaramente che questa ha seguito sempre un unico disegno. E che questo disegno, anche se a mia insaputa, è risultato alla fine essere quello che avevo cercato sin dal primo momento. Tutto ciò non può che riempirmi di gioia.

Eppure, non avrei mai pensato di poter riuscire in un simile compito. Quando finii le scuole medie e mi ritrovai a dover fare l’epica scelta tra liceo classico e liceo scientifico, per un lungo periodo ero molto scettica rispetto a quest’ultimo perché, udite, credevo di non essere tagliata per il disegno tecnico. Una certa carenza di lungimiranza, è il caso di dire. Quando poi ero sul punto di finire il liceo, appunto scientifico, avrei assai volentieri preso filosofia. O, in ogni caso, credevo che sarei diventata tutto fuorché un ingegnere, idea che mi disturbava, quantomeno se applicata alla mia persona. E invece, nell’ultima settimana disponibile per le iscrizioni operai la mia scelta “definitiva” convinta dal piano di studi, ma soprattutto da alcune iniziali inclinazioni per il restauro, senz’altro retaggio di una famiglia di cultori dell’antiquariato e del collezionismo (e di cordiali detestatori di qualsiasi cosa, in arte, possa vantare meno di due o tre secoli d’età). Mai avrei pensato di potermi interessare alla progettazione. Anzi, conservavo molti dubbi sulle possibilità dell’architettura contemporanea di interessarmi veramente. La consideravo, tutto sommato, una materia sterile.

Analizzando a posteriori questa mia patologica incapacità di fare previsioni sul mio avvenire mi sono spesso chiesta se presto o tardi non sarei finita ad insegnare meccanica razionale in un cantone svizzero. Ad oggi, otto agosto duemilanove, questa possibilità mi sembra alquanto lontana (ma la misura di quanto ne sono grata potrebbe essere un ottimo indicatore in senso contrario, a voler seguire il trend d’incongruenza adottato finora). In compenso, sto preparando la tesi, una tesi complessa il cui argomento ho la fortuna di aver potuto scegliere in tutta libertà, e la sorpresa che provo ogni passo di documentazione che compio continua a raccontarmi dell’apparente impredicibilità della mia esistenza, e contemporaneamente della sua precisa conformazione ad una scala più ampia. Ancora una volta, ad esempio, mi trovo faccia a faccia con temi e romanzi di fantascienza, genere che mai prima d’oggi mi aveva interessato in alcun modo e dal quale adesso non posso più prescindere.

E tuttavia – è qui che volevo andare a parare – oggi vedo che ognuno dei repentini cambi di rotta compiuti rispetto ad ogni mia personale metafisica del futuro non ha fatto che condurmi nell’unica direzione per me da sempre immutata: quella dell’invincibile tensione eclettica.
La mia scrivania salentina è coperta di libri. William Gibson e Philip K. Dick, ma anche Borges e Baudrillard. Due libri di cronaca scientifica sul caos matematico. Due Derrida e un McLuhan. Libri di neuroscienze e di informatica. Titoli dal sapore visionario e classici intramontabili di narrativa.
In sostanza oggi ho capito che il premio per l’onestà intellettuale nei confronti di se stessi è la realizzazione di una visione complessiva che si verifica anche quando un desiderio profondo sembra essere stato messo nel cassetto. Con buona pace di chi disse il contratio, la vita è ciò che progettiamo mentre siamo occupati a far accadere altre cose.

4.7.09

È necessario vivere / Bisogna scrivere

Ovvero: è tutta colpa di Facebook

Ogni tanto ritorno a scrivere su questo blog che, per la verità, non solo non ho mai deciso di abbandonare, ma per il mio subconscio è ancora tutto sommato parte integrante della mia attività nel mondo.
Come qualcuno saprà, parte dei motivi che mi portano ad aggiornarlo sempre meno spesso sono costituiti dal fatto che ne ho aperto un altro completamente dedicato all'architettura, e poiché ho ormai un'età veneranda, è bene il caso che orienti il mio tempo alle cause serie più che alle famose "divagazioni" del non sapersi accontentare.

E però, a dire la verità, non è che Il nido sia poi un fattore gravitazionale sufficiente ad esaurire il mio tempo o i miei argomenti; oggi, grazie ad un dialogo assai interessante con Salvatore D'Agostino (http://wilfingarchitettura.blogspot.com/), capisco che è tutta colpa di Facebook.

Facebook sembra fornire il massimo livello di libertà individuale nel livellare qualsiasi gerarchia permettendo, almeno in linea di principio, il contatto del contadino tailandese con il presidente degli Stati Uniti.
Se è vero che anche i blog costituiscono un rivoluzionario strumento di democratizzazione, permettendo a chiunque di condividere qualsiasi cosa, abbia essa un qualche valore o meno, essi conservano ancora una struttura che lascia all'utente della rete una vastissima libertà di scelta circa il numero e la tipologia di blog da seguire e stabiliscono così ancora una scala di valori che si può definire meritocratica: un bravo blogger avrà molti lettori; un pessimo blogger scriverà solo per sè. In sostanza, una scala basata sul buonsenso.

Facebook ne è completamente privo. Il meccanismo dell'"un'amicizia su facebook non si nega a nessuno" e l'assoluta impossibilità di indicare una scala di priorità nei legami con tali amicizie generano un bombardamento di informazioni completamente inutili e per lo più fastidiose che è impossibile disciplinare in qualsiasi modo. I pochi strumenti a disposizione per modificare le opzioni di visualizzazione delle notizie, infatti, comprendono soltanto scelte bistabili (ON/OFF) da operare nei confronti delle persone anziché di quello che esse condividono (fatte salve alcune applicazioni). Tale livello di personalizzabilità del servizio è assolutamente inaccettabile per quello che si ritiene ormai lo strumento principe del web 2.0.

Ma veniamo al dunque.
Questa inutile, dannosa sovraesposizione a fatti di importanza meno che nulla (tecnicamente: stronzate) e/o a loro descrizioni di livello pre-alfabetico annichilisce il desiderio del blogger "tradizionale" di condividere ulteriori informazioni, benché magari strutturate e circostanziate a dovere, perché a un livello anche conscio egli raggiunge il troppo pieno prima ancora di metter mano alla tastiera.
Questo per dirla alla maniera meno dolorosa possibile. A voler guardare più a fondo, in realtà, probabilmente c'è anche dell'altro.
Facebook sta uccidendo i blog, in sostanza, e non sono certo solo io a dirlo. Solo che me ne sono resa conto soltanto adesso, considerando l'effetto sulla mia stessa persona. Perché erano nati i blog, sarebbe a questo punto da chiedersi? Per desiderio di condivisione. Un desiderio alle spalle del quale c'è, ovviamente, una percentuale altissima di esibizionismo proprio della maggior parte degli esseri umani.
Bene, tale desiderio di condivisione/messa in mostra di sè trovava con i blog la possibilità di tradursi nella diffusione rapidissima di contenuti anche di grande interesse. Trasformava potenzialmente vizi in virtù.
Facebook, al contrario (esasperando tra l'altro una tendenza già presente in Twitter) altro non è che un sito che fornisce per via endovenosa sostanzialmente la stessa dose di soddisfazione generata dall'aver mostrato qualcosa di sè a qualcuno, ma nella forma al più di una frase associata al proprio nome (eredità del messaggio personale di Messanger) o di un link, o di un test. Poco di più. Lo stesso strumento delle note è fallimentare nella sua assoluta scomodità.

Non è difficile quindi cadere nella trappola: perché non c'è miglior modo di far tacere chi ama chiacchierare che riempirlo di chiacchiere consentendogli di rispondere a monosillabi.

Allora, il mio appello è ai tanti bravi blogger che conosco. Non smettete per nessun motivo. E usate Facebook il meno possibile. Lo usate già poco? Usatelo la metà di quel poco. E attenzione ai contentini.

P.s.: se per caso questo post vi avesse generato un qualche desiderio di rispondere, non fatelo su Facebook. Venite qui, bussate alla porta di quelli con cui vi interessa davvero interagire. E imparate a ignorare tutti gli altri.


15.3.09

Troppo paradiso per aggiungere sillabe

Delight is as the flight -
Or in the Ratio of it,
As the Schools would say -
The Rainbow's way -
A Skein
Flung colored, after Rain,
Would suit as bright,
Except that flight
Were Aliment -

"If it would last"
I asked the East,
When that Bent Stripe
Struck up my childish
Firmament -
And I, for glee,
Took Rainbows, as the common way,
And empty skies
The Eccentricity -

And so with Lives -
And so with Butterflies -
Seen magic - through the fright
That they will cheat the sight -
And Dower latitudes far on -
Some sudden morn -
Our portion - in the fashion -
Done -

[Emily Dickinson - J257]

4.3.09

Ogni tanto

Bari - dal 4 al 19 marzo 2009
Donatella Vox - L.B.A. Leon Battista Alberti | GALLERIA BLUORG

Donatella Vox torna al BLUorG con un nuovo ciclo artistico sulla scia della memoria storica, riportando alla luce aspetti nascosti e suggestioni creative, nel nome del padre dell’architettura.

19.1.09

La domanda sorge spontanea



[Rodolfo de Angelis - Ma cos'è questa crisi?, 1933]

17.1.09

Più studi, meno studi

Quando uno arriva in prossimità della fine della propria carriera di studente, è normale che cominci a considerare la pratica dell'esame come una formalità priva di senso. E maggiormente quando ci si trova davanti alla necessità di studiare una materia che si ama moltissimo. Chi mai, infatti, potrà dare alcun valore al giudizio numerico in trentesimi che un semisconosciuto gli affibbierà sulla base di un superficiale dialogo intessuto su sovrastrutture in genere ritrite? Perché ci si dovrebbe sottoporre a questa preistorica usanza quando si è sicuri che il proprio studio della stessa materia continuerà con ogni probabilità per tutto l'arco della vita? Che significa il tuo giudizio sul mio sapere oggi, se domani ne saprò un po' di più?
Transigendo, peraltro, sulla possibilità (sulla certezza) di disparità di vedute con la classe docente riguardo l'opportunità del taglio dato ai programmi: l'ipotesi di una qualche libertà all'interno di questo ambito porterebbe infatti il post nell'ambito della piena fantascienza. E, spiacente, ma non ho il cassetto "Fantascienza". Per il momento, almeno.
Per non parlare di quelle materie che - diciamoci la verità - risultano d'impaccio alla formazione che uno vorrebbe costruire per sè. Che impediscono, con la loro spropositata inerzia, lo svolgersi della propria autoformazione che costituisce un così auspicato (dai professori) indicatore di maturità (dello studente). Perché, se ho sulla scrivania un libro da leggere per ogni nuovo post su Il nido e la tela di ragno, svariati da studiare per un'ipotetico progetto di tesi e almeno uno che è lì per il mio puro diletto, devo poi utilizzare il mio tempo, per dire, in esercizi sulle macchine frigorifere? Non ha forse tutto ciò qualcosa di profondamente sbagliato?

13.1.09

Sesto: non mitizzare



«Da questa proposta si può trarre una regola che può essere valida anche per la presentazione di altre tecniche di comunicazione visiva.
Primo: far conoscere bene lo strumento che si usa in modo che l'uso sia appropriato e che ogni possibilità strumentale sia nota.
Secondo: far capire la tecnica più giusta per quello strumento.
Terzo: lasciare che ognuno scelga e decida che cosa fare con ciò che ha imparato.
Quarto: analizzare e discutere assieme i risultati dei lavori, non per decidere chi è il più bravo ma per dare una ragione a ognuno secondo il lavoro fatto.
Quinto: provocare e coordinare il lavoro di gruppo per uno scopo spettacolare.
Sesto: distruggere tutto e rifare per aggiornare continuamente e per non mitizzare il lavoro.»

[Da Bruno Munari, Fantasia, 1977]


12.1.09

YES, I CAN!

11.1.09

Just a perfect day, you made me forget myself.

Non credete anche voi che periodicamente ci siano degli eventi che agiscono sulla nostra vita, per così dire, da chiarificatori? Nel senso che prima di essi è tutto magmatico, indistinto, un brodo tra il primordiale e il postapocalittico in cui sono disciolte tutte le vostre vecchie certezze e speranze, e dopo ogni cosa sembra tornare al proprio posto galleggiando, come se una incorporea Mary Poppins ci stesse lavorando su lentamente?

Insomma, un po' come quando, presi da un globale sconforto per la propria funzione nel mondo, convinti di aver sbagliato ogni cosa e di essere destinati ad un futuro inutile se non dannoso a sè stessi e alla collettività, ci si abbandona alla lettura di un Chatwin e vi si trova dentro una citazione di Marshall McLuhan.
Mi rendo conto che la cosa possa non significare granché per la maggior parte di voi, ma per me è stato un fulmine a ciel sereno. È come se Bruce Chatwin avesse voluto dirmi: «seguila, è la strada giusta! Puoi essere come loro ed anche essere come me». E se lo dice Bruce, dev'essere senz'altro vero.

E poi ho finito il saggio e il romanzo che stavo leggendo, e ho comprato un altro saggio, e un altro romanzo, e presto finiranno anche quelli, e ne verranno di nuovi.
E ho rivisto le mie tre assurde compagne della nostra tristissima fine d'infanzia: l'astronauta è diventata una psicologa, la cantante una restauratrice, la stilista una giovane madre... ed io, che non sapevo cos'ero allora, oggi non so cosa sarò: ma è perché voglio che sia una sorpresa, che lo sia soprattutto per me.

E una grossa sfida imminente, e un'inesauribile passione, e un gran ribollire politico, e infine chissà, qualche interessante possibilità alle porte.

Così è iniziato il mio nuovo gennaio, così intendo vestirmene. Le tinte cupe di sfondo, il resto sotto la luce.


1.1.09

Buona volontà, cattiva coscienza, nuovo anno e vecchi merletti

Buonasera.
No, probabilmente non ho molto da dirvi, ma è che in giorni come questo, come il primo di un anno che si preannuncia tra i più difficili della mia vita, reminiscenze ancestrali di una certa superstizione di carattere domestico si risvegliano quale estremo appiglio di fantasie diversamente indebolite dalle circostanze.
Insomma, scrivo qui oggi semplicemente perché spero che il 2009 mi porti la possibilità di venir fuori dalla paralisi che ha messo i ceppi mesi fa alla mia vita e che ancora non sembra avere alcuna intenzione di allentare la presa. Se scrivo oggi, mi dico, l'hai visto mai: magari scrivo tutto l'anno.
E allora, buon inizio a voi, uomini di buona volontà.