Questo era il titolo (rubato a Kenzo Tange) che, alcuni giorni fa, ero decisa a dare ad un post il cui concepimento andava definendosi a partire - ovviamente - da certe vicende personali che negli ultimi tempi avevano ingenerato in me svariati dubbi ed inquietudini riguardo la nostra amata materia.
Sarebbe dovuta essere, in sostanza, una specie di invettiva home-made, di quelle di cui solo si riempie la rete, potremmo dire, quando c'è da parlare di architettura da parte di voci in vario grado addentro al settore. Una invettiva alla mia maniera, naturalmente; ma pur sempre un'invettiva, con tutto ciò che questo comporta ma, soprattutto, con tutto ciò che questo non comporta, in termini qualitativi.
E invece, il passaggio per le mie mani dell'ultimo Casabella ha fatto scatutire una subitanea inversione di tendenza nello stato d'animo di fondo alla mia titubante quotidianità.
Aprire l'omaggio a Pagano è equivalso, per me, all'essere investita da un inesplicabile groviglio di sensazioni tra le quali distinguo a fatica orgoglio, terrore, affetto e riverenza e che nell'insieme di tutte mi hanno rovistato nel profondo fino a causarmi evidenze di un certo effetto anche a livello fisico.
Pagano era un poeta. Una gioia incontenibile ha accompagnato questa mia scoperta. Architettura e parole, architettura di parole, parole di architettura: è stato possibile: è stato reale: è ancora meraviglioso. Il mio desiderio ha una correspondance in un altro intelletto. E quale! C'è ancora speranza.
Penso a Pagano e agli altri e vedo in loro quello che esigo dall'architettura oggi, probabilmente invano. Lo scioglimento del conflitto tutt'altro che eterno - secondo me recentissimo - tra (grande) Architettura e (grande) Ingegneria, tra (grande) Architettura e (grande) Urbanistica, tra arte altissima e mestiere nobilissimo, un conflitto che è lì come se l'architettura si fosse ritagliata attorno un fossato di cocci di specchi e ringhiasse rabbiosa e vana all'invisibile nemico, in realtà da se stessa accecata e da nessun altro.
Non tollero più (e dire "più" prima ancora di poter partire ha quasi un che di ironico) che il rapporto millenario tra le parti sia ridotto ad una serie di beghe da pollaio che fa dell'Architettura un'aporia continua, dove dovrebbe farne invece il luogo di un Aufhebung trionfante sebbene mai autoreferenziale.
Penso, ancora, a quel vizio di vanità (s'intenda nel significato etimologico) diffusa tra gli studi, nelle scuole; guardo gli appunti di Pagano e constato che, se pure letti così come sono, nell'assoluta mancanza di una sintassi qualechessia, supererebbero in contenuti e persino in forma l'insieme di tutte le conferenze e di tutti i discorsi che ci è dato di ascoltare allo stato dei fatti, anche dalle più illustri bocche. Non si ha più nulla da dire e lo si dice ugualmente; mi meraviglio che si scrivano ancora saggi, e quanti, e con quanta penuria di significato.
Chi fa il danno peggiore? Chi, a tutti i livelli, castra nel nome soffocato di un contegno insignificante il desiderio di tragedia che serpeggia ovunque si concentrino intelletto e stomaco, pensiero e membra, carni, unghie. Se questo sentimento sia popolare o meno, non sono in grado di dirlo. Che nasca da meccaniche divine è certo.
Insomma, pare che di invettiva si sia trattato ugualmente, alla fine dei conti. Pazienza.
Ah, quanto al numero 763 di Casabella, beh, è chiaro che non l'ho nemmeno letto. Lo farò, ovviamente. Ma mi farà cambiare avviso?
Sia benedetto il sangue,
Maat
Sarebbe dovuta essere, in sostanza, una specie di invettiva home-made, di quelle di cui solo si riempie la rete, potremmo dire, quando c'è da parlare di architettura da parte di voci in vario grado addentro al settore. Una invettiva alla mia maniera, naturalmente; ma pur sempre un'invettiva, con tutto ciò che questo comporta ma, soprattutto, con tutto ciò che questo non comporta, in termini qualitativi.
E invece, il passaggio per le mie mani dell'ultimo Casabella ha fatto scatutire una subitanea inversione di tendenza nello stato d'animo di fondo alla mia titubante quotidianità.
Aprire l'omaggio a Pagano è equivalso, per me, all'essere investita da un inesplicabile groviglio di sensazioni tra le quali distinguo a fatica orgoglio, terrore, affetto e riverenza e che nell'insieme di tutte mi hanno rovistato nel profondo fino a causarmi evidenze di un certo effetto anche a livello fisico.
Pagano era un poeta. Una gioia incontenibile ha accompagnato questa mia scoperta. Architettura e parole, architettura di parole, parole di architettura: è stato possibile: è stato reale: è ancora meraviglioso. Il mio desiderio ha una correspondance in un altro intelletto. E quale! C'è ancora speranza.
Penso a Pagano e agli altri e vedo in loro quello che esigo dall'architettura oggi, probabilmente invano. Lo scioglimento del conflitto tutt'altro che eterno - secondo me recentissimo - tra (grande) Architettura e (grande) Ingegneria, tra (grande) Architettura e (grande) Urbanistica, tra arte altissima e mestiere nobilissimo, un conflitto che è lì come se l'architettura si fosse ritagliata attorno un fossato di cocci di specchi e ringhiasse rabbiosa e vana all'invisibile nemico, in realtà da se stessa accecata e da nessun altro.
Non tollero più (e dire "più" prima ancora di poter partire ha quasi un che di ironico) che il rapporto millenario tra le parti sia ridotto ad una serie di beghe da pollaio che fa dell'Architettura un'aporia continua, dove dovrebbe farne invece il luogo di un Aufhebung trionfante sebbene mai autoreferenziale.
Penso, ancora, a quel vizio di vanità (s'intenda nel significato etimologico) diffusa tra gli studi, nelle scuole; guardo gli appunti di Pagano e constato che, se pure letti così come sono, nell'assoluta mancanza di una sintassi qualechessia, supererebbero in contenuti e persino in forma l'insieme di tutte le conferenze e di tutti i discorsi che ci è dato di ascoltare allo stato dei fatti, anche dalle più illustri bocche. Non si ha più nulla da dire e lo si dice ugualmente; mi meraviglio che si scrivano ancora saggi, e quanti, e con quanta penuria di significato.
Chi fa il danno peggiore? Chi, a tutti i livelli, castra nel nome soffocato di un contegno insignificante il desiderio di tragedia che serpeggia ovunque si concentrino intelletto e stomaco, pensiero e membra, carni, unghie. Se questo sentimento sia popolare o meno, non sono in grado di dirlo. Che nasca da meccaniche divine è certo.
Insomma, pare che di invettiva si sia trattato ugualmente, alla fine dei conti. Pazienza.
Ah, quanto al numero 763 di Casabella, beh, è chiaro che non l'ho nemmeno letto. Lo farò, ovviamente. Ma mi farà cambiare avviso?
Sia benedetto il sangue,
Maat
10 commenti:
non mi è del tutto chiara la tua posizione, sai?!
Senti, vai su Google, cerca Catroni e vediti il catalogo. 'sto tè di cui farnetichi non ce l'hanno. Se ti può interessare qualcosa comunicamelo per tempo...
- Fer -
An. ab Inc. Dom. Bis Millesimo Octavo
Castroni*
- Bis -
Per Peja.
Beh, riassumere un una "posizione" di una qualche coerenza le mie idee sulla scena architettonica contemporanea nella sua totalità è, direi, quantomeno difficile.
Se invece, come credo, tu vuoi che io polarizzi in un paio di periodi meno criptici quanto detto nell'ultimo post, forse ci posso provare.
In sostanza io credo che:
1. si sia creato una sorta di scollamento tra la professione del progettista e quello dell'uomo "di mestiere", con le mani sporche di china e le scarpe di calce;
2. la distanza ed il reciproco disprezzo tra sedicenti architetti e sedicenti ingegneri sia il campanello d'allarme di una profonda crisi del settore;
3. lo stesso, se non di peggio, si possa dire dei gap comunicativi tra l'universo dell'Architettura - con le sue riviste patinate e piene di pubblicità e il suo glamour irresistibile - e quello dell'Urbanistica - costellato di soli ingegneri la cui attenzione è focalizzata quasi solo alla infrastrutturazione ed è tendenzialmente troppo innamorata della politica;
4. le scuole italiane insegnino poco e male sia l'arte che il mestiere e che, in esse, dietro a personalità considerate grandi si nascondano uomini infinitamente piccoli che nulla sanno dell'educazione e a cui, certe volte, nulla importa di essa.
Per questi motivi e per altri non sono l'unica a ritenere che l'architettura si stia avvicinando ad una fase di relativo stallo. Se tutto si può fare, non si capisce più perché farlo. Obiettivi etici e formali sono poco chiari, non esistono movimenti con manifesti espliciti. È un'epoca di caos dato dalla tempesta delle potenzialità.
E nel frattempo, il Belpaese naufraga...
Bene Maat, ora mi è molto più chiaro, e sono felice di essere in ogni punto daccordo con te.
Sai, a volte mi domando se sono troppo criptico nel mio blog, ma in fin dei conti non è che mi debba interessare più di tanto, dato che è una sorta di stimolo a cercare materiale per la mia tesi. Sono daccordo anche per le scarpe sporche: io sono stato manovale da quando avevo sedici anni, tutte le estati. E' stato quantomeno istruttivo. Ma non dobbiamo mai scordarci che noi siamo una delle ultime arti concrete, che si interessano alla società. Il mio maestro, Alessandro D'Onofrio, non so citando chi mi ha detto: siamo gli ultimi umanisti. Ed è vero! Siamo gli ultimi: la filosofia se ne fotte della società, la sociologia se ne fotte della società, la comunicazione se ne fotte della società. Solo noi continuiamo a portarci dietro questo fardello. Solo noi andiamo a farci fottere insieme alla società.
E sono daccordo anche sull'ultimo punto: io nel mio blog mi interrogo sempre sui perchè, come linea generativa (non sto qui a giustificarmi, sto solo dicendo che sono daccordo con te). E' fondamentale, è imprescindibile. Condizione necessaria, e paradossalmente sufficiente.
Grazie tante per i chiarimenti, spero di non averto fatto perdere troppo tempo...
Anzi, che ne dici di improvvisare un dialoghi?! ;)
mi capita spesso di leggere il tuo blog ma è la prima volta che sento la necessità di rispondere...
credo che nella tua visone dell'architettura sia ancora troppo radicata quella convinzione modernista di stampo leibniziano per cui la disciplina debba continuare a precedere i propri simulacri... io credo che l'architettura semplicemente debba cercarne dei nuovi al di fuori del proprio ristretto ambito disciplinare... Sembrerà forse questo ancora più utopico nella dimensione provinciale della sottocultura barese imperante, ma non escludo a priori la possibilità di angusti spiragli...
Certo iniziare a leggere meno Casabella e impiegare meglio le prorpie energie sarebbe già un grande inizio.
con affetto
ananche
Per Ananche.
Mi interessa molto la tua posizione, ma vorrei che la srotolassi qui in maniera un po' più piana.
Mi sfugge mi malgrado il taglio leibniziano che rivedi nel mio inquadramento della disciplina architettonica, e vorrei davvero che me lo indicassi: la mia rugginosa e lacunosa erudizione filosofica ti segue a fatica su questo punto, ma la mia passione per la materia mi impone approfondimento e affama sinceramente.
Quanto alla lettura o meno dei vari Casabellucoli del caso, potrei darti ragione se non mi fosse d'obbligo considerare che non esistono molte altre fonti di informazione/ispirazione sul contemporaneo disponibili qui da noi. Molti siti internet, certo, di cui alcuni anche validi. Ma possiamo accontentarci di qualche solitario bloggherello o di altri piccoli spazi gestiti da manciate di intellettuali - peraltro dagli argomenti di valore altalenante - che, per il loro stesso isolamento, il più delle volte non riescono a provocare sufficiente dibattito?
Cosa proponi, Ananche?
già con difficoltà riesco ad arrotolare le mie rizla figurati se riesco a sdrotolare in maniera "un pò più piana" il mio pensiero...
Per le spiegazioni che mi chiedi, la mia natura logorroica mi impedisce di essere consono all'economia di un blog.
consigli non li darei neanche al mio peggior nemico...
la mia religione mi impedisce di leggere casabella...
cosa faccio io???
ho imparato a dislocarmi, a cercare i miei simulacri in altre discipline per poi trasporli in architettura e, soprattutto, a cercare di rubare il più possibile da quei pochi maestri che mi è capitato di incontrare nella vita.
che fare?
"aspetto e intanto voto pannella e canto" (c.f. nota MESSA DI VESPIRI
1994)
Ananche
Fer: ti ho comprato un libro usato che ti piacerà. Chiaramente dovrai consegnarmi, volente o nolente, la pecunia impiegata in tal acquisto (5)... A Dio
- Fer -
Quel che tu, Maat, hai provato incontrando Pagana a me è successo incontrando Ponti (di cui continuerò sempre a lodare sperticatamente "amate l'architettura", ancora in libreria). Condivido in buona parte le tue perplessità sul mondo dell'architettura e vorrei che tanti colleghi architetti (tutti?) si facessero un esamino di coscienza, mettendo sul piatto le loro reali conoscenze e le loro astratte aspirazioni. La pratica della professione in Italia è una cosa molto deludente... e molto pe colpa degli architetti. Bisognerebbe credo parlare proprio dei problemi concreti del fare architettura oggi. Un futuro post?
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