26.3.06

Il Paradiso?

Incenso, marzo, Rachmaninov e una penna.
C'è aria di montagna. Sono le cinque ed è ancora presto.

Su di me, una stanchezza leggera.
La consapevolezza di un Ordine
transitorio.

Solitariamente vivo la delizia di una stasi primaverile e cancello gli affanni nel colore del tè.

21.3.06

Un consiglio

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Merci ;)

Percorsi estetici, parte III: antica Cina, il loto fragrante

Rieccoci. Terza puntata.
Ah, un consiglio. Stavolta, per il vostro bene, non intraprendete il viaggio se siete deboli di stomaco.

No, non sono scarpe per bambola quelle che vedete e, che ci crediate o no, non sono nemmeno scarpe per neonati.

Nella Cina imperiale (ricordiamo che l’Impero cinese è caduto nel 1911), sin dal X secolo, se non da prima ancora, era in uso la pratica della fasciatura dei piedi della donna.
A partire da giovanissime (tra i due e gli otto anni), le bambine delle famiglie nobili ed agiate - ma inseguito, per emulazione, anche quelle delle classi contadine - venivano iniziate a questa pratica estetica ricca di significati sociologici ed erotici.

L’operazione veniva eseguita mediante fasciature strettissime attorno al piede, che ne ostacolavano il normale processo di sviluppo. Per restare piccoli, fra i 7 e i 12 centimetri al massimo, i piedini delle bambine venivano fasciati con bende di cotone che li tenevano stretti notte e giorno fino a deformarli stabilmente. Le quattro dita piccole venivano ripiegate e strette con le bende contro la pianta del piede, in modo da renderla più affusolata e, contemporaneamente, il piede veniva accorciato forzando l'alluce ed il calcagno l'uno contro l'altro, in modo che l'arco del piede assumesse una forma fortemente convessa e il piede nel suo complesso si disponesse in forma di mezzaluna (e ciò era possibile grazie all'elasticità dell'ossatura infantile). Con la crescita l'arco si rompeva, così come si fratturavano le falangi delle dita ripiegate. Di conseguenza, il piede poteva sopportare il peso del corpo soltanto sul tallone. Se questo procedimento iniziava entro i primi anni di vita, l'esperienza della bambina era meno dolorosa che non nei casi in cui, soprattutto nelle famiglie contadine, essa veniva lasciata con i piedi intatti fino all'età di dieci o dodici anni, perché potesse aiutare più a lungo in casa e nei campi.
Dopo i primi due anni dall'inizio della fasciatura, il dolore diminuiva, ma in ogni caso la fasciatura dei piedi comportava un tormento quotidiano, che sarebbe continuato per tutta la vita. Una volta deformati a piacere, i piedi bendati erano poco utili a stare in piedi perché ovviamente, privi della normale elasticità, erano un sostegno instabile e faticoso e, dato che il peso del corpo era trasferito tutto sui talloni, la persona doveva oscillare continuamente avanti e indietro per mantenersi in equilibrio. Adele M. Fielde, una missionaria vissuta per circa dieci anni a Shantou verso la fine del XIX secolo, raccontava che «Durante il processo la carne andava spesso in putrefazione, parti della pianta si squamavano e a volte cadevano una o più dita. Il dolore persisteva per circa un anno e quindi diminuiva d’intensità, finché, verso la fine del secondo anno, i piedi perdevano ogni sensibilità e risultavano praticamente morti». Tra i 13 e i 15 anni lo sviluppo osseo cessava e il “loto” era pronto per essere segretamente ammirato dai pretendenti della giovane donna.

In effetti, l’usanza venne ad assumere col tempo connotati sempre più estremi e significati sempre più complessi. Si pensa infatti che le prime a fasciarsi i piedi fossero state certe danzatrici di corte e quindi sembra ragionevole pensare che, almeno in un primo momento, la pratica fosse meno costrittiva e meno invalidante… o le danzatrici non avrebbero chiaramente potuto continuare a dirsi tali.

In seguito, col diffondersi della “moda” tra le varie classi sociali si sviluppò il vizioso meccanismo di ricerca della perfezione assoluta che condusse, come già detto, ad iniziare la fasciatura dei piedi in bambine di soli due anni. Questo portava generalmente l’inabilità quasi totale delle donne, che per camminare dovevano appoggiarsi alle pareti o a bastoni o, ancora, ad altre persone. È chiaro quindi come la preferenza estetico - erotica tipicamente cinese per un piede “naturalmente” piccolo si fosse trasformata in una pratica di dichiarazione pubblica di sottomissione totale della donna, pronta a soffrire pene indicibili per decenni e a rinunciare alla propria libertà di movimento per il solo soddisfacimento del desiderio maschile.
E in effetti esiste una vasta letteratura erotica in proposito. È il caso di citare un aristocratico di nome Fang Xun - probabilmente uno pseudonimo - che, autonominatosi “dottore del loto fragrante”, con esaltati slanci lirici elencò le componenti estetiche necessarie perché il piede rimpicciolito fosse degno di lode, riportò alcuni commenti critici e analizzò i giochi del bere per la cui esecuzione erano indispensabili le scarpine . Seguendo l’ordine sistematico di un’opera botanica, produsse la Classificazione delle qualità dei loti fragranti enumerando cinquantotto varietà di loti umani, incluse nella classificazione sia i piedi ben fasciati e splendidamente dotati come pure quelli brutti e disgustosi a vedersi. “Petalo di loto”, “Luna nuova”, “Arco armonioso", “Virgulto di bambù” e “Castagna d’acqua” erano i termini eufonici dati ai modelli principali. Rotondità, morbidezza ed eleganza erano le tre qualità più rare del piede; un piede gracile, infatti, raffreddava la passione di chi lo guardava, uno troppo robusto comprometteva la femminilità e, per un piede che fosse volgare, nessuna medicina avrebbe potuto togliere questo difetto. La rotondità e la morbidezza potevano venire apprezzate con gli occhi, ma l’eleganza era una qualità che solo l’intelletto poteva intendere. Inoltre fissò nove categorie di bellezza, che comparò ufficialmente alle nove classi in cui era divisa la società cinese. Le prime tre erano:

“Qualità divina”, né grassa né magra ma di forma perfetta come l’antica bellezza Xi Shi di sublimi sembianze.
“Qualità meravigliosa”, debole ed esile come un ramo di salice che pende in cerca di appoggio e che si piega alla brezza.
“Qualità immortale”, con ossa diritte e disarticolate, simile a chi viveva tra le montagne nutrendosi di cose selvatiche, pronta a fuggir via se cercavi di afferrarla. Gli altri sei gradi erano guastati da imperfezioni sempre più evidenti e gravi.

Esistevano ovviamente anche termini ironici coniati appositamente per le donne con i piedi grandi. La ragazza poteva essere schernita per i suoi piedi di carpa o di aringa, o essere chiamata “demone dai piedi grandi” e alle sue scarpe si affibbiava a volte l’appellativo di “barche a cornacchia”. Una giovane che aveva i piedi fasciati male poteva essere beffata come “verde zenzero davanti, uovo d’oca dietro”. Poesie e canti popolari biasimavano le donne con i piedi grandi.
A censore dei piedi naturali si ergeva, ancora una volta, Fang Xun. Ecco alcuni passi tratti dalla sua Miscellanea del giardino d’oro, decisamente rappresentativi della mentalità cinese dell’epoca e di quanto la pratica della fasciatura avesse influenzato la psicologia sessuale dei cinesi:

Sarcasmo: mandare all’inferno una donna con i piedi grandi fingendo di lodarla con il dire che le estremità dei suoi arti inferiori hanno lo stesso ridente aspetto di quello di Guanyin, dea dai piedi naturali.
Infanzia sciupata: bambina che non praticò con scrupolosità la fasciatura dei piedi e che ora, dato che nessuno apprezza i suoi piedi grandi, deve sposar
e un uomo povero e portare per tutta la vita scarpe di vimini e calze dozzinali.
Ridicolo: donna con i piedi grandi che critica una dama con i piedi piccoli, accusandola di esserseli stretti eccessivamente allo scopo di attirare il maschio.
La pazzia delle mie contemporanee: donne che per timore della fasciatura seguono la moda dei piedi naturali delle Manciù.

Vista poco piacevole: l’ancheggiare di una donna che ha i piedi grandi.
Causa di compassione: donna bella con piedi grandi.

Pensieri reconditi: fantasticare su chi abbia lasciato le piccole orme al bordo della strada.
Dolce diletto: sposare una donna che senti essere descritta come bella, levarle dapprima il velo nuziale e quindi prendere tra le mani i suoi delicati piedini.

Era tale l’attrazione feticista dell’uomo cinese per il piede femminile, che addirittura era più facile che una donna mostrasse i suoi genitali che i suoi piedi sfasciati. Persino per il marito essi restavano quasi sempre un misterioso oggetto del desiderio racchiuso in calze di seta e scarpine preziosissime, confezionate dalla donna stessa, ancora una volta a costituire manifesto delle proprie virtù di raffinatezza e buona manualità.

Il primo passo (ed è proprio il caso di dirlo) verso l’abolizione di questa incredibile pratica fu un decreto emanato dall’Impero nel 1902. Tuttavia, l’usanza era profondamente radicata e il provvedimento legislativo non poté che portare scompiglio e contraddizione. Si giunse all’assurdo per cui si rinnegava legalmente la pratica del divorzio dalle donne con i piedi piccoli ma contemporaneamente, con un’ordinanza del 1928, esse venivano negli effetti perseguitate, sottoposte a discriminazioni e alla sfasciatura forzata ad opera delle forze di polizia.

L’usanza del loto continuò tuttavia negli ambienti rurali più legati alle tradizioni e non cessò definitivamente che con l’avvento della Repubblica Popolare nel ’49. Le sofferenze delle donne cinesi non erano però di certo finite: dopo la sofferenza giovanile e la frustrazione della scoperta della sua totale inutilità, ecco che la discriminazione assumeva componenti ideologiche. Una donna inabile al lavoro non era degna compagna dell’uomo rivoluzionario.

Molte furono costrette a sfasciarsi i piedi e a rompere nuovamente le ossa per aprirli e riappropriarsi faticosamente di un ruolo nella nuova società nascente.



Fonti documentative ed iconografiche:

http://guide.supereva.com/cultura_cinese/l_altra_met_del_cielo_la_donna_in_cina/
http://www.donneinviaggio.com/donne_mondo/piedini%20donne%20cinesi.htm

http://www.liceoberchet.it/ricerche/geo4d_03/Cina/piedi_3liv.htm



Per rileggere gli altri percorsi estetici:
Percorsi estetici, parte I: Mursi, un'estetica dell'assurdo

Percorsi estetici, parte II: Pa Dong, mistero svelato

20.3.06

Ce Parig' avess'u mare...

U dialètt nest
Arturo Santoro


Quànn che nù dialètt se pòte scriv’nvèrs,
non ze pòte disce ca jè tjimb pèers!
Ci tu va a nù paìse, ce gìre u mùnne sàne,
ce sacce… va a Nàbbue, a Rom’o a Melàne,
e pàrl che la gènde, ma che la gènda drètt,
tu sjìnd’a tùtt vànn, ca pàrlene dialètt.
Jì m’addemann’angòre, percè mò, sùl’a Bare
Se mètten’a pavùre a parlà come nge pàre?
Ci dìsce ca jè brùtt, cùss dialètt nèst,
o non ganòsce u mùnn, o jè nù càpe tèst.

14.3.06

La mia toeletta serale

Bisogna proprio che io scriva. In barba a chi dice che i blog fanno schifo e di conseguenza in barba a me medesima innanzitutto. E sì, perché dice bene Ismaele che non abbiamo ancora fatto qualcosa di buono nel mondo, né la piccolezza dei miei polpastrelli sembra voler far strada ad una futura The Maat Experience, come tanto desiderato…
Nella vita, forse, più che fare quello che si vorrebbe, si dovrebbe fare ciò che per Natura ci è stato donato di saper fare. Eccomi quindi alla mia toeletta serale, così, per imbellettarmi un po’ l’encefalo dopo giornate lunghe. E d’altronde, non è forse più semplice operare nel modo in cui riesce più facile beccare bei complimenti? Eheh. Imparate, bambini

Sono talmente tante le cose che potrei scrivere, che davvero ancora non so quale stile adottare, ma direi che questa battaglia accademica con me stessa può chiudersi qui e passare a cose ben più sensate.

Ebbene, riverserò qui il mio pianto. In pubblico, sì, sfacciatamente condividendo tutto… ma mai proprio nel luogo di destinazione. Solo qui a casa mia, per tutti e per me sola. Insomma, per i pochi con la pazienza (e la curiosità) di interpretare.

***
«… quando partisti, come son rimasta!
Come l’aratro in mezzo alla maggese.»
[G. P.]

Sono giorni complessi, in cui ognuno pretende qualcosa da me (o in cui magari semplicemente qualcuno ha bisogno di me: presuntuosa!). E curiosamente ho sulla schiena segni rossi di frustate che servivano a farmi andare avanti; che ci riuscivano, ma che alla lunga forse fiaccherebbero anche un elefante. Posso senza dubbio dirmi molto hamer, in questo: sono stata io stessa a desiderarle, a richiederle, a supplicare per esse.
Ma tutto ciò che c’è di sbagliato nel (piccolo) mondo è solo questo: che diversi modi di pensare non devono costituire altro che alternative interessanti per ognuno. Né posso tollerare che ci sia chi è costretto a fare le valigie… e per cosa poi, per il bene. Per il bene!! Accontentarsi della resa incondizionata per il quieto vivere… E chi è quel pazzo criminale che vuol vivere in quiete?! Non io, certamente!
Credevo di aver preso, di sfuggita e per un pelo (e anche sbagliando numero, c’è da ammetterlo silenziosamente), un tram che dritto dritto mi avrebbe portata ad una magnifica destinazione. Magnifica, in particolare, proprio perché così inaspettata da poter essere trovata per caso dietro il famoso barattolo di pelati. E invece, adesso, sempre più mi vedo nei panni dell’avvocatessa d’assalto con le necessità di attaccare e difendere continuamente, sempre meno mi sento amazzone di me stessa. Lavoro di scrivania, giacca e cravatta, capelli raccolti. Nulla a che fare, di certo, con una lunga gonna plissettata dal largo bordo d’oro e le ciocche annodate dal vento di montagna, qualche foglia d’ulivo qua e là.
Sempre meno mi sembra di far del bene.
Non posso condividere neppure l’idea di chi, per battere in ritirata e difendere la porta, fornisca sguardi trasversali o non ne fornisca affatto (preferisco obliquità di genuina malizia!). Vorrei fare un discorso attorno al focolare, quello stesso dove così poco tempo fa avevo creduto di trovare risposta a tanti interrogativi. Sto crescendo più in fretta ogni giorno che passa (se continuo così, mi consumerò presto… e, d’altra parte, quanto conviene diventare vecchi?), ma sto crescendo nel sospetto e ho bisogno di arrestare la mia parabola discendente. Devo ritrovare il sogno che alla mia Spett.le attenzione aveva portato un migliaio di euro di torte e tanti sorrisi sinceri.
Se la risposta è su quelle dannate verdi montagne oltre il mare, non sono in grado di dirlo, ancora. Di certo, speravo che mi si tenesse per mano un altro po’, sul ghiaccio. Ci avevo preso quasi gusto. :D
Dovrò accontentarmi di due punte di freccia incastrate nel miocardio. Che non portino cancrena, Dio santo… Ma tanto lo so che nemmeno questo servirà a niente. Perché troppo privée è questa stanzetta e chi dovrebbe leggere non leggerà. Posso al più sperare che una variopinta e cazzuta coppietta passi distrattamente da qui una volta, e mai pensi che stia parlando di lei. Ciao ragazzi!
Vorrei non dover dire che mi restano solo loro di tutto ciò che avevo prima. Non posso nemmeno più avere un pensiero felice e credo si sia calmato il vento. Per necessità di cose, certo… ma ho troppi sguardi cui non so che significato dare. Avrò pur una voce piacevole da sentir portare morfina al cuore, ma dopo? Cosa resta di un delizioso illecito piccolo casino combinato? Almeno il senso? Almeno, sarà servito?
O forse per salvarne uno ne ha rovinati tre? Comunichiamo, dannazione.
In collettivo.

E poi… di tanti sogni incompiuti forse ne resta uno solo che non voglio arrendermi ad abbandonare.
Ho bisogno di movimento, del Movimento. Ho bisogno di illudermi che il mio passaggio non sarà come gli altri. Cos’è questa ossessione di lasciare il segno, non so. Non temo la morte, ma mi secca l’idea. Ho la fortuna di poter dire che mi piace molto vivere e sono dell’avviso che forse sia questo il modo giusto. Anche con un mezzo infarto al giorno per le responsabilità prese (madre, figlia… quand’è che sarò solo sorella?), mi va bene; tanto poi c’è la lentezza di un tè arabo a riprendersi tutto e a restituire l’equilibrio. Perché diavolo ha chiuso, il Medina?? Vabè, mi accontenterò di un tè rosso preparato in cucina e del profumo di miele e incenso delle foglie bagnate che restano al fondo della tazza. Ce l’hai presente? Mi sembra di poterci leggere il futuro dentro…
E così aspetto il potere che si sprigiona da un virginale poetastro da bettola, da una giovane epicurea del massacro, da un cavaliere del secchio, da una anacronistica collega nel feticismo dei dettagli e da un marinaio viola, nonché, s’intende, da chiunque altro voglia unirsi a questo mio immaginario attimo fuggente e lasciare tra cent’anni che i bambini leggano di esso… ricordate? Anche al narciso philokalos (maledizione a blogspot che non c'ha i caratteri greci) che a tal proposito ancora non mi ha fatto capire quali intenzioni abbia… Ma ci saranno domeniche per ogni cosa, non temete. Non voglio appassire così.
Per il momento la mia gioia va in particolare al Paradiso, adesso! rincorso follemente sotto la pioggia di una serata “in maschera / giù la maschera” a sorpresa più etilica del previsto… e mai come in quell’occasione ho potuto pensare che gli antichi avessero ragione di dire: in vino veritas!

E infine, un ringraziamento particolare a qualcuno che dubito fortemente verrà qui a leggere tutto questo. A quel mio fratello (ci sono fratelli che si possono scegliere, sapete? ;D) che nel vigore dei suoi bruni undici anni (più di sei, ormai, regalati a me) è colui che più direttamente riesce a far sentire su di me lo scorrere del mondo nella sua potente interezza. Aspetto il prossimo concupiscente sodalizio, amico mio… prendimi e portami con te a respirare l’ondulatorio [quasi sessuale, no?] ritmo del vento.

Chiuderei qui, ma forse i miei venticinque lettori [eheheh… non funziona mica con tutti, scema :D] si chiederanno che ne sia dell’amore.
A prescindere dalla mia estrema riservatezza in proposito, se non parlo d’amore è perché è l’unico tra gli ambiti della mia esistenza a non smettere di regalarmi felicità senza chiedere (quasi) nulla in cambio. L’Amore è onnipresente nella sua delicata pazienza, pronto a fornirmi sempre una coperta sotto la quale proteggermi dalle ceneri della vita e risolvermi nell’androgino primordiale.
Sono convinta che l’arte (e la scrittura lo è, ammesso o meno che io ne sia artigiana capace) trovi sua massima giustificazione nell’espressione del male di vivere. E poiché l’amore non mi genera tali sensazioni, ahimé, temo proprio che terrò per me sola certe considerazioni in proposito. ;)

Bene, ho parlato abbastanza e credo di aver dato soddisfazione a molti.
Al prossimo criptico comizio, allora.

M, E, V

12.3.06

Don't let anything dampen your enthusiasm!

4.3.06

Tic. Tac.

Una farfalla inquieta e pensosa.
Una soluzione da cercare per ogni piccolo dramma.
Un racconto da continuare.

Le mie intenzioni sciolte in sospiri. Angoscia. Tic. Tac.